La Cina nel WTO
Inserire la più grande industria del pianeta con un livello di costo del lavoro tra i più bassi fatti mai registrare sul globo terracqueo significa creare non pochi problemi ai suoi concorrenti.
Anche qui, cerchiamo di andare con ordine…
Il costo del lavoro è definito dagli economisti come “uno dei costi della produzione in un'impresa”. Ma non è altro che la somma dei costi che un’azienda deve sostenere per mantenere un lavoratore (dal suo reddito, passando per i contributi sino ad arrivare al TFR); ergo, abbassare il costo del lavoro significa abbassare gli stipendi dei lavoratori (non proprio una soluzione ottimale per la società).
Fatto sta che la Cina possiede davvero un’industria manifatturiera e un costo del lavoro tra i più bassi al mondo, fattore che porta ad un incremento significativo della produttività. I mercati non hanno particolare interesse nell’etica del prodotto ma guardano al profitto e questo suggerisce di puntare sull’industria cinese. Più prodotti ad un costo nettamente inferiore, a discapito della qualità naturalmente.
Primo punto fondamentale della nostra trattazione: la Cina limita la nostra industria manifatturiera, numerose piccole e medie imprese impegnate in diversi settori quali il tessile e la manifattura falliscono a seguito della mancanza di domanda del mercato, ormai rivoltosi ad oriente.
Naturalmente, l'entrata nel WTO del colosso asiatico non può rappresentare l'unico fattore che ha condotto il nostro paese alla crisi, esplosa nel 2011. In effetti, esistono molteplici fattori scatenanti. Cerchiamo di analizzare i più rappresentativi in pochi paragrafi.
Grecia o NON Grecia?
Veniamo alla macro-finanza.
La Grecia non c’entra nulla con la crisi Italiana del 2011!
In realtà, c’entra eccome.
Nell’autunno del 2009 l’allora primo ministro greco annunciò in diretta tv la realtà della situazione economico-finanziaria greca: i bilanci dello stato venivano regolarmente falsificati dagli anni novanta per permettere dapprima l’entrata della Grecia nella zona euro e successivamente il rispetto delle regole vigenti (la regola del 3%).
Se non avete mai sentito parlare di questa regola, ve la spieghiamo noi in una frase - la regola vuole che ogni stato dell’area euro possa avere un deficit di bilancio non superiore al 3% del suo prodotto interno lordo (PIL), pena l’adozione immediata di misure che riportino questo rapporto entro la percentuale indicata.
Inoltre, per dovere di chiarezza, aggiungiamo che questa percentuale non corrisponde ad alcun calcolo empirico o legge economica - è semplicemente il frutto del pensiero di un signore francese di nome Guy Abeille (uno sconosciuto funzionario del governo di François Mitterand). Molti si sono spesi per l’allargamento di questa soglia di deficit (e più in generale di quelle denominate “fiscal compact”) per permettere agli stati più indebitati di perseguire manovre anti-cicliche (contro la recessione); noi di Scriptema ne abbiamo parlato recentemente con rete MMT. Tuttavia, passi avanti in questo senso non si sono ancora registrati.
Torniamo alla crisi greca: Papandreou annunciò che il rapporto deficit-Pil per l’anno 2009 avrebbe raggiunto il 12,5% e chiese aiuto immediato all’Europa. Scoppiò immediatamente la più grande crisi della storia dell’Euro.
La principale ragione che generò il caos sui mercati fu la seguente: nessuno stato europeo ha il potere di signoraggio (la possibilità di stampare moneta) dunque solo la Grecia poteva garantire il proprio debito con una manovra fiscale, data la totale mancanza di volontà della BCE (Banca Centrale Europea) di stampare denaro. Le istituzioni economiche dell’Ue non volevano affidarsi ad interventi di mera immissione di liquidità in nome di un non bene definito “rigore”. I tedeschi, questi teutonici…
E così, il povero stato ellenico venne abbandonato a se stesso per diversi mesi senza che nessuno avesse realmente il coraggio di intervenire per risolvere la situazione.
Il faro puntato sul debito pubblico
"La Grecia è saltata, a chi tocca ora?"
La frase che balena nella mente dei mercati e dei principali trader mondiali sembra proprio essere questa.
Se infatti il popolo ellenico era senza dubbio il primo stato a presentare un deficit così pronunciato e un debito pubblico così grande da essere potenzialmente “insolvibile”, quanti e quali paesi potevano avere una situazione finanziaria paragonabile a quella greca? La Spagna, il Portogallo, l’irlanda….l’Italia?! Di quali garanzie dispongono i mercati sulla solvibilità di questi debiti pubblici e chi ne garantisce la veridicità?
La risposta è infausta: non esistono garanzie a riprova di ciò.
Questo significava che l’attacco subito finanziariamente dai discendenti di quel gran popolo di filosofi, poeti e drammaturghi avrebbe potuto estendersi anche ai cugini mediterranei...e questo puntualmente accadde.
L’Italia nell'occhio del ciclone
Il problema “debito italiano” esisteva ed era tangibile per i mercati finanziari. L’unico che sembrava negare questa problematica risultava essere il solo che avrebbe dovuto essere ben conscio della situazione. Costui si chiama Silvio Berlusconi.
Il 4 agosto 2011 Jean-Claude Trichet e Mario Draghi (rispettivamente governatore uscente ed entrante della BCE) inviarono una lettera al governo Berlusconi. Raccomandarono l’immediata adozione di una serie di riforme che, se adottate, avrebbero garantito all’Italia il sostegno della BCE. Il governo temporeggiò, la sua risicata maggioranza parlamentare non consentiva di avviare le riforme richieste con la necessaria determinazione senza che a risentirne fosse l’appeal politico di Berlusconi.
Parte il filmato del summit del G20 di Cannes (tenutosi il 4 novembre 2011): Silvio Berlusconi viene ripetutamente ignorato dai grandi della politica mondiale, Merkel, Obama, Sarkozy...nulla!
Si accinge dunque a presenziare al discorso finale del vertice in assoluta solitudine (pare più un Byronic Hero che un presidente del consiglio in quel momento); queste le sue parole: “Noi riteniamo che sia davvero una moda passeggera quella per cui i mercati si avventano sui titoli di debito sovrano italiano. Noi siamo veramente un’economia forte, la terza economia europea, la settima economia del mondo. La vita in Italia è la vita di un paese benestante. In tutte le occasioni questo si dimostra. I consumi non sono diminuiti, i ristoranti, sono pieni...Gli aerei...Con fatica si riesce a prenotare dei posti. Non credo che voi vi accorgiate andando a vivere in Italia che il paese senta un qualche cosa che possa assomigliare a una forte crisi!”
Sta ancora parlando, Silvio Berlusconi, e già si registrano i primi movimenti finanziari. Una vendita massiccia di titoli di stato da parte soprattutto delle banche tedesche e francesi, segno inconfondibile del fatto che i mercati percepisco il nostro debito come “non garantito”. Cinque giorni dopo, il 9 novembre, lo spread raggiunge il massimo storico di 575 punti base, portando il rendimento del BTP decennale al 7,47%. Significa che il nostro debito è rischioso, i mercati non si accollano un rischio tanto elevato. L’Italia è sull’orlo del precipizio ed il suo debito rischia di avvitarsi diventando realmente insostenibile.
La Spending Review
Al posto di Berlusconi arrivò Mario Monti. La ricetta economica, che è una risposta indiretta ai mercati finanziari, consistette in un’ampia manovra di austerity, il “Salva Italia”, che ottenne il beneplacito dell’UE. Poche settimane dopo, la BCE avviò l’LTRO (Long Term Refinancing Operation). Non si stampò denaro, lo si prestò alle banche perché comprassero titoli di stato europei e finanziassero il debito dei paesi Euro in difficoltà. Il governatore italiano della BCE (Mario Draghi) pronunciò un famoso discorso a sostegno dell’Euro e della sua costruzione e… la mossa riuscì; migliaia di miliardi di acquisti sono in grado di scoraggiare anche i più cocciuti trader finanziari e l’attacco speculativo fu scongiurato.
In Italia, però, l’austerity ha portato ad una decisa diminuzione degli investimenti e ad un forte calo dei consumi. Si fermarono il mercato immobiliare e quello automobilistico. Diminuirono persino le spese alimentari. Si impennarono i fallimenti e, purtroppo, anche i casi di suicidio. Non sono i grandi investitori ma i piccoli proprietari i più soggetti alla crisi.
L’attualità
Oggi, 24/07/2017, la crisi sembra sempre più un rischio scongiurato. O perlomeno così ci appare la fredda statistica dei numeri che le varie istituzioni ci propongono quotidianamente. Un fantasma che aleggia sopra le nostre teste, incutendo timore e promettendo un futuro incerto. Si ha la sensazione che quel demone ci accompagnerà ancora a lungo, in una sorta di revival della famosa frase “Ricordati che devi morire…” e laconica risposta di Massimo Troisi: “Sì, mo’ me lo segno…”.
L’UE affronta ogni giorno numerosi problemi politici, ma la situazione economica complessiva sembra essersi tranquillizzata, grazie anche alla manovra finanziaria della Banca Centrale dei TLTRO (maxi-iniezioni di liquidità a lungo termine, per abbassare i tassi e sostenere l’economia). Tuttavia, i lunghi anni di crisi hanno colpito duramente il nostro paese, lasciando al tappeto aziende, capacità produttiva, Pil pro-capite e tanta “fiducia”. L’Italia, che pur torna a far registrare un deciso aumento dell’export commerciale (segno del fatto che la nostra industria, ‘ove funziona, funziona per davvero), stenta a ripartire ed a consolidare un ritmo di crescita necessario a ritornare ai livelli degli anni ‘90, indispensabile per riassorbire la disoccupazione ancora “monstre” (oltre 3mln di donne e uomini) ed innalzare la percentuale di “occupati” che ci vede ancora ai margini del G20 (poco sopra il 50%). La zavorra del debito pubblico è un aspetto, la crisi dei consumi e degli investimenti un altro, la mancanza di lavoro per i giovani un altro ancora con costi sociali inaccettabili... Per trattare ciascuno di questi problemi dovrei scrivere un articolo per tematica e, aggiungo con assoluta onestà, non sarei neppure in grado di farlo da solo.
Certo è che qualcosa di diverso si può e si deve fare; l’industria 4.0 in Italia ha margini enormi, le menti a questo paese non mancano. Bisogna attirare questi campioni di intelletto, investire in Ricerca & Sviluppo, creare i presupposti per far sì che l’Italia ritorni ad essere un luogo nel quale poter crescere e realizzarsi professionalmente.
Soluzioni facili a problemi complessi non esistono; è vero. Ma è anche vero che non esiste altra via. “Aiutiamoci a casa nostra, verrebbe da dire”. Iniziamo a farlo.
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