E’ dunque difficile pensare che le case reali abbiano interesse nell’affrancarsi dallo sfruttamento di una risorsa così strategica. Il più grande paese della sponda occidentale del Golfo, l’Arabia Saudia, sembra invece voler intraprendere un percorso di emancipazione da tale risorsa dopo aver annunciato nel 2016 il progetto “Vision 2030”. Il fautore della proposta, il giovane principe Moḥammad bin Salmān Āl Saʿūd, figlio dell’attuale re Salman, ha individuato in questo periodo poco favorevole per il petrolio un presupposto per tentare una ambiziosa riforma del sistema economico ed istituzionale del regno.
Le principali misure del progetto
Maggiore esportatore di petrolio al mondo, circa il 90 percento delle entrate statali origina dall’attività estrattiva. Ed inoltre dà lavoro alla quasi totalità dei dipendenti pubblici (che rappresentano i due terzi della forza lavoro totale). Tuttavia, con il crollo del prezzo del barile e sua costante volatilità nei prezzi dal 2014, la situazione pare essere cambiata: nel 2016 lo stato saudita ha incassato un disavanzo del 19.4 percento, a partire da un surplus di 6.5 punti percentuali nel 2013. Più in generale, con la presa di coscienza da parte della popolazione mondiale circa gli effetti del surriscaldamento globale, la virata verso business model sostenibili ha già iniziato ad osteggiare le obsolete “brown technologies”. Il giovane principe, attualmente ministro della Difesa, probabilmente consapevole dello scenario che può presentarsi già nel breve periodo, ha concepito un piano per correggere gli squilibri economici del paese e per garantire al paese un futuro slegato dallo sfruttamento del petrolio.
Uno degli aspetti più eclatanti della riforma è senza dubbio la quotazione (che si prevede avverrà nel 2018) circa il 5 percento della compagnia nazionale di idrocarburi, l’ARAMCO. Non solo per l’entità della transazione, che i sauditi prevedono essere sui 2 mila miliardi di dollari, ma anche per il valore politico e simbolico dell’operazione. Indubbiamente il più importante asset della famiglia reale, l’operazione oltre ad offrire una parvenza di management transparency si configura snodo fondamentale per la messa in atto del piano Vision, che ha come principale obiettivo la riduzione della dipendenza da idrocarburi. I proventi della quotazione, infatti, confluiranno in un fondo di investimento pubblico che finanzierà anche il progetto.
La necessità di riformare l’intero sistema economico si presta invece come la sfida più difficile che bin Salmān dovrà affrontare. Considerando che il 90 percento delle entrate governative derivano da attività estrattive, vi sarà bisogno di un cambio di mentalità oltre che un ingente quantitativo di finanziamenti al settore “non-oil”. Mckinsey, che ha svolto un ruolo pivotale nella strutturazione di Vision 2030, ha stimato in 4 mila miliardi di dollari l’ammontare totale di investimenti per spingere le attuali rendite da attività non-oil dall’attuale 10 percento al 70 percento nel 2030. I nuovi settori strategici potrebbero divenire il petrolchimico (ove è già presente la gigante SABIC), il settore della difesa ed il finanziario. Il cambio di mentalità che il principe bin Salman vorrebbe ingiungere ai sudditi si basa sull’incoraggiamento allo spirito imprenditoriale ed alla azione privata. Il settore pubblico ha da sempre accolto la maggioranza dei lavoratori sauditi, offrendo compensi e garanzie elevatissimi. Ora che le condizioni dell’attività estrattiva potrebbero mostrarsi meno favorevoli, alla famiglia reale conviene svincolarsi da potenziali insostenibilità. Viene inoltre menzionata l’introduzione di un riforma fiscale: verranno stabilite nuove misure impositive indirette quali ad esempio la tassa sul valore aggiunto (che sarà comunque molto bassa) e sui tabacchi.
Un progetto di non facile attuazione
La nuova strada che bin Salman vuole intraprendere potrebbe indubbiamente mettere l’Arabia Saudita in condizioni favorevoli nel futuro, quando il petrolio non sarà più un asset strategico. La fattibilità del progetto potrebbe essere tuttavia minata da tre fattori. In primo luogo va considerato il gioco politico che ogni casa reale sperimenta ciclicamente: la successione al trono. I favoriti eredi sono considerati il principe bin Salman, figlio dell’attuale re, e Muḥammad bin Nāyef, cugino del principe e stimato ministro dell’Interno, gode di grande considerazione in merito ai suoi sforzi contro il terrorismo. La maggioranza della famiglia reale è schierata con quest’ultimo ed è quindi facile pensare a tentativi di sabotaggio ai danni di bin Salmān. Va poi considerato il ruolo dello stato saudita nei confronti dei sudditi; è considerato difatti uno stato rentier: la legittimità della corona è retta da ingenti benefici economici diretti ai sudditi, che vengono in questo modo indennizzati dalla mancanza di libertà civili. Spostare con troppa leggerezza gli equilibri sociali su cui la corona stessa si regge potrebbe risultare in una vera e propria caduta della famiglia reale. In ultima analisi, il successo del piano potrebbe essere minato dal perdurare della bassa quotazione del petrolio. Le continue frizioni tra paesi OPEC non rendono possibile un rialzo artificiale del prezzo, pertanto ai paesi esportatori non resta che sperare che il consolidamento definitivo della crescita mondiale ed il conseguente rafforzarsi della domanda di greggio si presentino il prima possibile. Difatti la mancanza di rendite petrolifere potrebbe minare il progetto alla partenza, data l’entità di fondi necessari.
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