C’è il voice over all’inizio, è vero, e ci sono anche quelle note iniziali di tastiera che fanno odiare Jump a mezzo mondo mondiale, eppure in questo frangente arrivano quasi a sembrare perfette.
E poi c’è un lunghissimo piano sequenza con cui quell’esteta di Spielberg firma il film sin dai primi fotogrammi, che ha avuto il potere di materializzare davanti ai miei occhi - come solo Peter Jackson è riuscito a fare quando ha messo su la Contea - le immagini che mentalmente avevo creato per visualizzare le prime pagine del libro.
(Sì, c’è un libro dietro a tutto questo. Un libro really nerd inside, che probabilmente spaccherà completamente-a-metà-col-mister l’opinione pubblica del settore. Io sto con quelli che hanno amato molto il libro, ma che non per questo devono bocciare a priori il film.)
Ready player One è un film che ha un intento preciso e lo dichiara subito, esplicitando (sì, sempre con il voice over...) il fatto che parla di un’epoca futura - ma neanche tanto - in cui “la gente ha smesso di cercare di risolvere i problemi e ha iniziato a tirare avanti”; in cui un genio illuminato e a tratti fulminato, che strizza l’occhio al capoccia della Mela ma si chiama come un vecchio cantante francese, che odia mettere regole e costruisce mondi, ha inventato Oasis. Ovvero, “un posto per evadere quando la realtà fa schifo” e dove “la gente va per quello che si può fare ma ci rimane per quello che si può essere”.
In questa realtà virtuale che dà sollievo a un pianeta schiantato dalla vita e dalla consapevolezza che, stavolta sì... è davvero tutto finito, gli esseri umani si rintanano a a proteggere la propria piccola fetta di niente e - senza accorgersene - si trovano esposti al più grande insegnamento che il padre fondatore (ma anche Spielberg, da sempre) ha deciso di impartire loro: per ottenere il controllo del futuro, bisogna saper andare all’indietro.
E, in questo senso, il messaggio arriva forte e chiaro attraverso un caleidoscopio di citazioni visive, testuali e musicali che non sono mai, mai, mai lì per caso (anche se non sempre si riesce a capirlo subito).
Da Jump in poi, le canzoni entrano puntuali a scandire i punti di svolta della trama, splendendo (una più iconica dell’altra) e compiendo un viaggio negli anni ‘80 che fa tappa - tra le varie - su Faith di George Michael, Take on me degli A-ha, Video killed the radio stars dei Buggles e One way or another di Blondie. E nessuno di questi pezzi stona perché, sempre “per le parole, le canzoni o la musica” di cui sopra, ognuna ha la propria ragione di essere dove si trova.
E non stona mai nemmeno il trilione di input visivi ininterrotti che - sospesi tra passato e futuro - ti prendono per mano e ti conducono attraverso il film come lungo un sentiero di mattoni gialli in versione distopica. Spielberg ne ha per tutti, e molto spesso anche per se stesso visto che - proviamo a negarlo? - che una buona fetta degli anni ‘80 e ‘90 visivamente l’ha iconizzata lui: c’è il T-Rex, c’è Jack Slater, c’è Highlander, c’è Beetlejuice, c’è Alien, c’è Mortal Kombat, c’è Indiana Jones, Chucky la bambola assassina e anche gli zombi (...ma anche Minecraft, attenzione, perché siamo sempre nel futuro).
Proprio perché sia chiaro che siamo in una storia in cui “per vincere bisogna andare all’indietro”, dalla DeLorean in poi c’è Zemeckis in tutte le salse, anche associato al cubo di Rubik e ben venga perché - Dio solo ne conosce il motivo - quel genio non viene mai onorato abbastanza quando arriva l’ora di celebrare i grandi registi.
Ci sono informazioni cruciali, tecnologiche e segretissime scritte a mano su un post-it giallo, personaggi futuristici che sfoggiano la pulsar dei Joy Division datata 1979, interrogatori che testano l’integrità altrui pretendendo il nome della scuola a cui era iscritto l’indimenticabile Ferris Buller, robottoni giapponesi che strizzano l’occhio a Metropolis di Fritz Lang.
E poi c’è una sceneggiatura (quasi) a prova di bomba che prende le mosse da un lavoro di adattamento altamente qualificato e che - mi piace pensare - è figlio legittimo del DNA di Spielberg in persona, generato la mattina in cui Steven si dev’essere svegliato e deve aver annunciato al suo staff: “Bene, oggi facciamo i numeri. Ma quelli veri.”
E così ci troviamo di fronte allo sputtanamento-con-nochalance del paradosso di Clark Kent, che nessuno riconosce più come tale solo perché quando è Superman non indossa gli occhiali. Oppure al più classico dei personaggi comici di spalla che Shakespeare seminava un po’ ovunque nelle sue commedie, il quale però - in questo caso - “rulla” e “killa”, accusa la sindrome del tunnel carpale al collo e recita le formule magiche di Excalibur come fosse il ritornello di Despacito. O ancora al combattimento tra Godzilla e l’unico improponibile nemico che (oltre a Barbara Streisand in South Park, ovviamente) ancora mancasse al suo curriculum. E che mai come in questo momento si rivela azzeccato, geniaccio dello Steven. Abbiamo la forza della banda contrapposta alle singole individualità che nel libro sono molto più spiccate e un richiamo alla liberazione finale di Truman Show che in video appare molto più evidente che su carta.
Ma soprattutto - non dico oltre per non rovinare la fantasmagoria imprevista - abbiamo Spielberg che decide di raccontarci scene inedite e mai immaginate di uno dei film più visti e citati della storia dei film di genere.
Perché il pallone è suo e ci gioca come dice lui. E fa benissimo.
Quando esci dal cinema sei contento, pieno di film da tutte le parti e orgoglioso di essere dove sei nel momento in cui lo sei, perché - conclude nel film il genio visionario che si chiama come un cantante francese - “per quanto terrificante sia la vita, rimane l’unico posto dove mangiare un pasto decente... perché la realtà è l’unica cosa che è reale.”
E per fortuna. Forse non è ancora arrivato il momento in cui campare solo per tirare avanti e smettere per sempre di provare a risolvere i nostri problemi.
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