L’utilizzo della parola mobbing ha fatto ingresso con una certa naturalezza nel nostro quotidiano, tuttavia il più delle volte tale termine viene utilizzato in maniera impropria o non corretta o quantomeno distorta.
Il mobbing è un termine che indica “una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psicofisico e del complesso della sua personalità”. [Cass. Sez. Lavoro n. 22393/2012]
La definizione di cui sopra è propriamente attinente alla forma c.d. di “mobbing verticale”, che si distingue dalla condotta di “mobbing orizzontale”, che si realizza allorquando i comportamenti sopradescritti sono realizzati ad opera di colleghi di lavoro.
Si parla di “bossing” invece quando le condotte mobbizzanti hanno il proposito specifico di estromettere dalla compagine lavorativa uno o più lavoratori indesiderati “a costo zero”, attraverso l’attuazione di una minuziosa strategia imprenditoriale da parte di figure dirigenziali volta – nelle maggiori delle ipotesi - ad assecondare logiche di mercato, economiche ed aziendali tout court.
Affinché si realizzino vere e proprie condotte mobbizzanti, tuttavia, devono sussistere e coesistere le seguenti condizioni.
Le condotte mobizzanti devono protrarsi nel tempo in maniera sistematica.
Difatti “integra la nozione di mobbing la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, ed, eventualmente, anche leciti)” [Cass. Sez. Lavoro, 6 marzo 2006, n. 4774, Cons. Stato Sez. VI, 20/06/2012, n. 3584; Cfr. Cass. Sez. Lavoro. 17/2/2009 n. 3785)].
In altre parole la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico, costante e prolungato contro il dipendente, con intento vessatorio.
Pertanto non si concretizza una fattispecie di mobbing attraverso una condotta istantanea o relegata a casi isolati, ovvero temporalmente scollegati (per quanto non si esclude che anche un singolo atto lesivo possa rilevare ove i relativi effetti siano duraturi).
In secondo luogo deve essere data prova dell'elemento soggettivo che si sostanzia nell’intento persecutorio, nella volontà di emarginare il dipendente o semplicemente di realizzare nei suoi confronti vessazioni o mortificazioni.
Si pensi difatti che la protrazione nel tempo delle condotte mobbizzanti ed il correlato intento persecutorio, differenziano una condotta di mobbing da una "serie di singoli atti illegittimi" , quali la mera dequalificazione.
Ai fini della configurabilità della fattispecie oggetto della presente trattazione, è inoltre rilevante l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente, intesa quale lesione della sfera professionale o personale nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica).
Importanza fondamentale pertanto assume l’analisi e la prova – soprattutto in sede di costituzione del proprio impianto difensivo - del nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore.
Difatti le allegazioni, produzioni e richieste probatorie non devono essere generiche ma devono essere idonee a dimostrare la sussistenza di un nesso di causalità tra la pretesa condotta persecutoria e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore: dalle allegazioni e dalla documentazione medica prodotta in giudizio devono risultare gli eventi che hanno dato origine alla situazione di stress psicologico che avrebbero determinato l’insorgere ed il formarsi delle patologie che si sono riscontrate.
Inoltre l'eventuale fragilità del lavoratore o la preesistenza di disturbi psichici, non valgono ad interrompere o a recidere il collegamento eziologico tra l'affezione riscontrata e le molestie subite [Cass. Sez. Lavoro 29 agosto 2007, n. 18262] , dovendosene invece tenere conto ai soli fini della valutazione del danno, pertanto non nella determinazione del nesso di causalità.