Nella fattispecie veniva affermato in prima analisi che “l’esistenza del vincolo di subordinazione va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione”.
Veniva altresì precisato ( Cass. N. 224/1001; Cass. N. 16697/2002, Cass. N. 9251/2010) “che nei casi in cui la distinzione tra lavoro autonomo e subordinato è di più complessa enucleazione in relazione al tipo di incarico conferito al lavoratore e al contesto in cui è svolta la prestazione, è legittimo ricorrere ad indicatori sussidiari, quali la presenza della pur minima organizzazione imprenditoriale ovvero l’incidenza del rischio economico, l’osservanza di un orario, la forma di retribuzione, la continuità della prestazione”.
Pertanto è stata chiarita la regola iuris secondo la quale “nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione, sia in quello opposto, in cui le stesse mansioni, per lo più intellettuali, siano tali da essere dotate di notevole elevatezza e/o creatività, il criterio rappresentato dall'assoggettamento del prestatore all'esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare in quel particolare contesto significativo per la qualificazione del rapporto di lavoro, ed occorre allora far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell'orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale e la sussistenza di un effettivo potere di auto-organizzazione in capo al prestatore". (Cass. 16935/2013 ,Cass. 20367/2014, Cass. N. 12330/2016)
Di conseguenza, anche da un punto di vista meramente pratico, è necessario soffermarsi sull’analisi di elementi (rectius: indicatori), che possono dirimere in sede giudiziale – una volta provati – la natura del rapporto di lavoro tra le parti, quali ad esempio:
- la predisposizione di turni settimanali o orari di lavoro, verificando se gli stessi sono frutto di un’autodeterminazione del lavoratore o sono predisposti dalla società;
- la possibilità in capo al lavoratore di allontanarsi dal luogo di lavoro, con o senza autorizzazione;
- il concordare un periodo feriale;
- l’obbligo o meno in capo al lavoratore di avvertire preventivamente il preposto in caso di indisponibilità o di assenza;
- il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa e l’utilizzo o meno di beni aziendali o uniformi/divise aziendali, secondo orari predeterminati;
- la natura e l’ammontare del compenso: pertanto se lo stesso viene erogato alla stregua di un emolumento predeterminato o con riferimento al risultato della prestazione;
- la sussistenza o meno di un rischio economico da parte del lavoratore.
Nonostante nel caso di specie la Suprema Corte non avesse escluso altresì la sussistenza di un potere disciplinare in capo alla società soccombente, ha comunque preso posizione rispetto all’incidenza del potere disciplinare in relazione alla determinazione della natura di lavoro tra le parti, statuendo espressamente che “l’assenza di un potere disciplinare non può, di per sé, comportare la negazione del vincolo di subordinazione”.
Questo assunto ovviamente non deve tradursi nel depauperamento tout court del valore del potere disciplinare nell’accertamento della natura della prestazione lavorativa ma, più che altro, viene sottolineata indirettamente (ed ancora una volta) l’importanza della concomitanza di una serie di indici che l’organo giudicante deve tenere conto, in sede di qualificazione del rapporto lavorativo.
Pertanto si può giungere alla conclusione logica che nessuno degli indici di subordinazione, di per sé, deve ritenersi determinante ma - laddove sia riscontrabile la contemporanea presenza di più indici - ciò potrà costituire una prova della natura subordinata del rapporto.
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