Le persone, nell’antichità, si vestivano per ripararsi dal freddo e per evitare che il loro corpo potesse essere affetto da qualche malattia mentre oggi, con tale scusante, agghindiamo la nostra persona come fosse un piccolo albero di natale, caricandolo di tutti quei dettagli capaci di etichettarci come esseri umani, appartenenti ad una determinata classe sociale o di seguire determinati ideali geopolitici.
L’essere alla moda può avere innumerevoli sfaccettature, come quello di “mascherare” il proprio corpo per celare alcuni aspetti di noi, per addolcire alcuni difetti fisici o per il semplice gusto di piacersi e divertirsi. Non è forse nato così il Carnevale? Una festa goliardica ricca di fasti ed eccessi, concessa al popolo prima dei digiuni quaresimali, una festa dove era consuetudine mascherarsi e dunque travestirsi in maniera tale da esser quasi irriconoscibili. Una moda dunque, per quanto particolare e singolare ma anch’essa una moda, non trovate?
Cercando di comprendere in maniera più approfondita ed appropriata che cosa possa significare realmente “essere alla moda”, possiamo dire che a dare l’esempio di una corretta maniera comportamentale e stilistica, fino al calar del XX secolo, era la classe aristocratica a mostrare quale fosse la moda di quel momento, seguendo esattamente il modello trickle-down. Questa teoria, infatti, viene espressa dal sociologo Georg Simmel, il quale afferma che la diffusione della moda avviene dall’alto al basso, dalle “classi dominanti” a quelle “inferiori” attraverso un semplice processo di imitazione ma allo stesso tempo di differenziazione. È un processo semplicissimo anche se oggigiorno è sempre più difficile parlare di classe dominante, ovviamente, ma la qualità del tessuto, del filo d’ordito con il quale viene imbastita la giacca, della seta atta filare una pochette estremamente soave al tatto e dai colori sgargianti: tanti piccoli dettagli che fanno la differenza.
È proprio in questa teoria del sociologo berlinese che si evince l’ambiguità del termine moda: un tempo, potevamo dedurre come il termine si riferisse ad una moda per pochi eletti, una tendenza che poteva essere cavalcata solo da quella élite aristocratica che dettava le regole della moda. Con il passare del tempo però il termine ha cambiato valenza poiché il fare moda è mutato radicalmente fin dal principio, dalle sue fondamenta. Ora ci troviamo ad affrontare un modello di tipo bottom up, ove è la “classe popolare” ad ispirare e stimolare gli stilisti nel fare le collezioni. I ruoli si sono quasi sovvertiti, allineandosi per qualche istante, trasformando le gerarchie stesse dell’olimpo della moda anche se, ovviamente, la qualità con i quali un abito di sartoria viene confezionato non potrà mai essere equiparato a quello di un pronto moda, assolutamente.
Essere alla moda è quindi un’espressione che ha modificato costantemente il suo significato anche se l’essenza è rimasta illesa, poiché la volontà dell’uomo di uniformarsi ai propri simili, per comodità, per consuetudine ed anche per necessità ha fatto sì che qualcuno si dovesse continuamente ergere a portavoce di quella moda, affinché il nostro vestire fosse giustificato ed accreditato dal comportamento adottato già in precedenza da qualcun’altro, una sorta di rassicurazione, che evitasse così qualsiasi forma di ambiguità.
Fonti:
La moda, Georg Simmel, SE, 1996
La moda nella letteratura contemporanea, Daniela Baroncini, Bruno Mondadori, 2010
Simmel e la cultura moderna, books.google.it