Dopo qualche convenevole abbiamo la possibilità di sedere in una stanza a vetri in perfetta solitudine. Non ho particolare necessità di dettare le regole dell’intervista in quanto Marco sa bene cosa ha intenzione di comunicarci e da sé ci conduce nel vivo della discussione.
Ciao Marco, grazie per averci concesso questa intervista...
Grazie a te. Sono felice di avere l’opportunità di prendere parte a questa intervista, è un’esperienza della quale avevo bisogno… [mi interrompe dal principio, è il bello di coach Munzio!]
Iniziamo con una breve presentazione, quali sono le tue esperienze da head coach? Il tuo palmarès riporta un nome illustre e apprezzato da una buona metà del popolo bolognese…
È così per certi versi, ma non esagererei! Ho iniziato a 17 anni come assistente nella ormai ex società del Castiglione Murri. Mi sono fatto le ossa in questo contesto, imparando molto da numerosi allenatori. Successivamente ho allenato in diverse realtà della pallacanestro nostrana tra le quali Calderara, Pontevecchio, Vergato e New Flying Balls Ozzano. Durante il triennio ’01-’03 invece ho avuto il privilegio di lavorare nel settore giovanile della SG Fortitudo (Società Ginnastica Fortitudo), poi ribattezzata “Fortitudo 103”. Posso solo dire “grazie” a questa società che mi ha concesso la possibilità di vivere anni indimenticabili alla guida di numerose squadre di cadetti e juniores di livello nazionale. Dopo questa esperienza ho allenato diverse squadre di serie D e “minors“, sempre nella provincia di Bologna che è e rimane la città perfetta per respirare basket.
Come mai non hai tentato di fare il salto di qualità cercando di allenare squadre di più alta categoria?
Il mestiere dell’allenatore non è mai stato il mio primo lavoro, così ho dovuto scegliere. Avendo solo le sere a disposizione per allenare diventava sempre più complesso gestire ogni impegno [il coach chiosa un po’, ma si percepisce sincerità nei suoi occhi].
Entro subito nel vivo dell’intervista; sei un allenatore di grande esperienza avendo calcato la maggior parte dei parquet di questa provincia per ben 33 anni, come definiresti la pallacanestro italiana al momento?
A livello giovanile posso dire che la situazione è tutto fuorché negativa. Forse vado un po’ in controtendenza, tuttavia i ragazzi di oggi dimostrano di aver raggiunto una fisicità di gran lunga superiore alle mie più rosee aspettative e di talenti se ne vedono ancora nelle palestre di tutta Italia. Il problema va cercato nel “sistema pallacanestro” con il maggior campionato della nostra divisione che fatica ad esprimere un gioco tecnico all’altezza delle migliori nazioni d’Europa.
Perché succede questo? Cosa non funziona nel nostro basket?
Sono diversi i fattori che condizionano la nostra A1. Da istruttore giovanile non posso che ravvisare una mancanza di attenzione da parte delle nostre società nei confronti dei giovani italiani. Abbiamo aperto i confini del nostro stato e della nostra pallacanestro in modo eccessivo. Se da un lato è giusto e legittimo aprire le nostre palestre agli stranieri e ai comunitari, dall’altro non è ammissibile che la maggior parte delle società odierne disinvesta partendo dalla smobilitazione del nostro patrimonio. Si dice che un ragazzo italiano rappresenti un costo eccessivo per le casse societarie, ma questo è un fatto che paghiamo a caro prezzo.
Coach, ci spieghi brevemente il perché un italiano under20 sarebbe un costo per una società di basket italiana.
È molto semplice: alti costi di formazione, la necessità di pagare un corrispettivo economico annuale alla società di provenienza del giocatore e per finire l’assoluta mancanza di pazienza verso la gioventù. Il talento si costruisce con gli investimenti e sopportando alcuni errori dettati dall’inesperienza ma questo è un paese che da molto tempo ha perso la capacità di investire sui suoi talenti migliori. Perdi una partita perché una futura promessa della tua squadra ha perso un pallone nei minuti finali di un match? Pazienza, avrai perso una partita…ma stai guadagnando un giocatore per il futuro!
Non sembrano in molti a fare questo ragionamento, lo dico da allenatore di settore giovanile e minibasket. Cosa ne pensi tu a riguardo?
Non è del tutto vero, pochi giorni fa ho assistito ad un clinic di Piero Mellina (allenatore di grande esperienza), il succo del ragionamento era il seguente: “dobbiamo far giocare in prima squadra i ragazzi fin da quando hanno 16 anni se hanno le capacità per stare a quel livello”. Un certo Danilo Gallinari ha partecipato per la prima volta ad un campionato di serie B a 16 anni, ha vinto e l’anno dopo è andato in A2. Com’è andata a finire, lo sappiamo tutti…
Certo si tratta di un giocatore molto particolare, quasi unico nel suo genere. Non c’è il rischio che molti ragazzi si lascino trascinare da una speranza poco concreta a discapito di valori fondamentali come l’educazione o l’istruzione?
Il rischio è concreto ma credo sia dettato unicamente dalla nostra visione di percepire lo sport. Dovremmo prendere spunto dai paesi anglosassoni, nei quali ogni bambino/ragazzo pratica sport. Dopo di che, i più talentuosi vengono iscritti ad un campionato competitivo e lì si cerca di fabbricare sportivi di valore. Prima di tutto comunque, occorre insegnare i valori dello sport a questi ragazzi. Fargli capire che dentro un campo da gioco possono trovare risposte utili per quella che sarà la loro vita fuori dalla palestra o stadio che sia. Da allenatore, mi sento portato per insegnare ad un giovane le regole fondamentali per vivere nel modo giusto questo “conflitto”. Poi, chi avrà talento tenterà il passaggio dalle giovanili alla prima squadra. I restanti, faranno qualcosa di speciale in un altro contesto.
Cosa può fare un allenatore per gestire nel modo giusto il proprio giocatore?
Bisogna volere il bene dei ragazzi. Chiediamoci “ho sempre allenato per il bene del mio giocatore”? Ho sempre cercato di lavorare nel suo interesse, anteponendolo al mio? Oppure ho troppo spesso assecondato il volere sterile e ottuso di una società con mancanza di prospettiva? E con questo non voglio dire che sia stato il mio caso…ho avuto la fortuna di lavorare con persone di spessore umano e sportivo non indifferente in QUASI tutte le società per le quali ho allenato. [rimarca il QUASI con tono sarcastico e un sorriso provocatorio]
Un’ultima domanda Marco: siamo alle battute conclusive di un campionato molto particolare. Poche società storiche hanno preso parte alla contesa, molte realtà in grossa difficoltà finanziaria (alcune di esse non si capisce come facciano ad iscriversi al campionato), squadre piene di stranieri. Siamo di fronte ad un sistema agonizzante oppure è tutto nella norma?
Brave le finaliste Trento e Venezia [poche ore dopo vincerà lo scudetto 2016-2017] perché hanno creduto in un progetto e lo hanno portato avanti per molti anni. Buscaglia, bolognese di provenienza cestistica, ha ricevuto grande fiducia e allena “l’Aquila” da diverso tempo. Questo gli ha permesso di costruire una squadra, investendo in giovani italiani e stranieri affidabili. Flaccadori è la dimostrazione che i più giovani possono stare in una finale di A1 (anche se italiani). Venezia dal canto suo, ha Tonut e Ress. Un po’ poco per definirsi una squadra ITALIANA eppure hanno raggiunto risultati eccellenti grazie alla fiducia nel progetto tecnico e ad un patron che ha investito molto nella squadra. Pazienza e COSTRUIRE, queste le parole d’ordine per arrivare in alto. Peccato solo che siano pochi gli italiani protagonisti. In A2 è andata decisamente meglio grazie ad una semplice direttiva tecnica che regolamenta il numero massimo di stranieri tesserabili. Poi, se piazze come Bologna, Treviso, Trieste, Roma, Siena e Biella sono relegate nella seconda serie e fanno più ascolti e abbonamenti del 75% delle squadre di massima divisione…qualcosa da rivedere c’è senz’altro.
Vuoi salutare i nostri lettori e dare qualche consiglio agli allenatori di domani?
Dico solo questo: ci vuole grande passione e NON esagerare con i sacrifici. Il tempo è denaro. Se si ha un’idea bisogna portarla avanti motivandola e giustificandola con coraggio e senza temere ritorsioni di alcun genere. L’importante è credere in quel che si fa e lavorare con il massimo impegno. Allenare significa trasmettere qualcosa, a se stessi e agli altri. E, soprattutto, ricordatevi di sognare e il resto verrà di conseguenza!
Grazie per il tempo concessoci, Monz!
Grazie a voi per l’opportunità e grazie a te per tutto! Continuerò a seguirvi…
Francesco Garulli intervista Marco Munzio