Il dato, di sicuro non allarmante, mostra come lo scheletro dell’economia del vecchio continente faccia leva, nella sua parte “non-financial”, sulle piccole e medie imprese.
Piccole e medie imprese: quali sono?
Le piccole e medie imprese (in italiano PMI, per l’UE SME à small and medium enterprise) sono secondo la dicitura europea imprese con meno di 250 impiegati. La ripartizione vede tre categorie: micro-imprese (con meno di 10 impiegati), piccole imprese (con un numero d’impiegati tra 10 e 49) e medie imprese (impiegati tra 50 e 249). La classificazione europea si fonda quindi solo ed unicamente sulle dimensioni del personale delle aziende e non, come secondo altre agenzie statistiche, anche sul fatturato.
La nazione con la più alta percentuale di micro imprese (la media europea è del 92.7%) è la Grecia con un record di ben 96.7% micro imprese su tutte le imprese presenti sul territorio. Seguono a ruota la Slovacchia (96.5%) e la Repubblica Ceca (96%). L’Italia possiede invece il quinto tasso europeo più alto, attestandosi al 94.9%. La presenza così radicata di così piccole imprese denota un forte spirito di imprenditoria autoctona, ma allo stesso tempo mette in evidenza un grave fattore occupazionale. Se più del 90% delle imprese sono formate da meno di 10 impiegati (che rappresentano in media il 29.2% della forza lavoro europea), come possono le poche imprese (meno del 10% del totale) rimanenti fornire posti di lavoro a circa il 70% della forza lavoro europea?
Un altro dato sulla stessa lunghezza d’onda proviene dalle stesse pagine del rapporto Eurostat. Stando al rapporto, infatti, il 70.8% delle 2.3 milioni di imprese create in Europa non ha impiegati. Questo fenomeno dei sole-enterpreneurs rappresenterebbe il 46.9% di tutte le persone assunte in neonate imprese. Il picco più alto di questo fenomeno si è avuto in Francia, dove ben il 92.3% delle neonate imprese è stato creato senza alcun dipendente.
La situazione italiana
In Italia la situazione economica è ben rappresentata dai rapporti del “regional yearbook”. Si sostiene, infatti, che la crisi economica abbia influenzato in maniera parecchio negativa la demografia delle imprese. Il tasso di nascita delle imprese sul nostro territorio è variegato, ma presenta sostanzialmente due livelli: tra il 7 e il 10% nelle regioni meridionali e inferiore al 7 % nelle regioni settentrionali. Questo dato mostra chiaramente, anche all’interno di uno stesso stato, come la crisi abbia dato un’occasione di crescita alle regioni più povere dell’Europa. Difatti i tassi di nascita di imprese, che misura il numero di nuove imprese in relazione al numero totale di imprese attive nello stato, registrano picchi in Lituania, Lettonia e Polonia. Di contro, però, in tutte queste regioni il tasso di fallimento delle imprese è superiore a quello di nascita, per un bilancio complessivo negativo. La parte settentrionale del bel Paese continua dunque nel suo ruolo da motrice per tutto lo Stato, come dimostra la densità di “high-growth enterprises” nel nord Italia compresa tra il 15 e il 30%. Contrariamente però al processo storico il Sud Italia sembra essersi scosso dall’immobilismo economico tipicamente meridionale per via anche dei fondi prettamente europei (i famosi fondi di coesione).
Le prossime sfide
Le sfide per l’Unione Europea da qui al prossimo futuro sono tante e indubbiamente molto impegnative. Bisogna riassestare l’asse delle imprese “non-financial” presenti sul territorio europeo, tentando di livellare le dimensioni delle attività. Per farlo l’UE ha adottato un programma, l’"Entrepreneurship 2020 action plan” volto a stimolare lo spirito imprenditoriale europeo ed incoraggiare gli imprenditori ad aprire nuove attività. Ma soprattutto bisognerà sconfiggere l’emergente fenomeno dei “working poor”: sempre più
persone in Europa lavorano ma rimangono sotto la soglia della povertà. In Italia la percentuale di persone a rischio di povertà o esclusione sociale è aumentata dal 2008 al 2013 di circa 4 punti percentuali rimanendo sempre sopra alla media UE (dal 24 al 28%), che è aumentata dell’1% (dal 22 al 23%). Resta questa la sfida più grossa e più impegnativa per l’Europa: stabilizzare un mercato del lavoro in totale trasformazione durante questi anni, per far diminuire drasticamente il rischio di povertà nel proprio territorio.
Fonti: