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libreria economia

19 Gen 2018

Il prezzo del petrolio: Il caso Europe 2020 Cap. 5

Scritto da

Grazie alla collaborazione di alcuni preziosi autori, Alessandro D’Addamio, Sofia Gori, Sergio Inferrera e Lorenzo Zannin, è nato un progetto molto approfondito riguardante la legislazione e come questa può modificare i prezzi e la produzione di petrolio.

Vista la vastità dell’argomento trattato, il team di HumanEuropeCapital ha pensato di pubblicare l’articolo a capitoli con scadenza regolare.

 

3.13 Regno Unito

La produzione di petrolio britannica emerge sicuramente come quella con più intensa attività dei paesi EU-15: in tutto il periodo di riferimento, il volume annuo di greggio estratto si attesta infatti su un valore medio di 97,6 Mtoe. La produzione presenta un incremento di 50,21 punti percentuali nei primi nove anni; raggiunge il suo massimo livello nel 1999, raggiungendo 143 Mtoe, per poi contrarsi del 70,98% nei successivi 15 anni.

Le importazioni di greggio si configurano con un andamento ricco di fluttuazioni e poco lineare; ciononostante, possiamo osservare nei primi tre anni una crescita del 19,34%, seguita da una contrazione del 28,4% nel periodo 1993-1999. Possiamo notare un trend approssimativamente positivo per quanto riguarda l’intervallo 1999-2004, con un aumento di 39,44 punti percentuali nel volume dell’import. Nei successivi cinque anni, seppur con numerose oscillazioni, si registra una flessione del 13,14%, seguita da un nuovo rialzo dell’ordine di 11,39 punti percentuali. Negli ultimi due anni del periodo considerato si assiste invece ad una caduta del 10,86% nel volume delle importazioni.

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I consumi energetici presentano una variazione del +9,19% nei primi 11 anni dell’intervallo temporale di riferimento, raggiungendo il valore massimo di tutto il periodo nell’anno 1996; a partire dal 2001 si può notare come il fabbisogno britannico decresca, seppur con un rialzo del 5,09% nel 2010, di un valore percentuale di 18,49 unità. È possibile osservare una forte correlazione lineare diretta tra la produzione e i consumi finali totali, pari all’84,35%: l’attività estrattiva ha presumibilmente seguito l’andamento del fabbisogno energetico nazionale, al fine di far fronte alle esigenze di consumo di cittadini ed imprese. Inoltre, a partire dai dati è possibile calcolare quanto il petrolio estratto sul territorio britannico abbia coperto il fabbisogno energetico del paese: l’indice di copertura si attesta su un valore medio del 67,65%, arrivando a toccare punte del 95% nella seconda metà degli anni ‘90. Possiamo dunque ragionevolmente asserire che il Regno Unito non dipende dai paesi esteri per quanto riguarda l’approvvigionamento di petrolio: il paese presenta infatti un indice medio di dipendenza petrolifera pari al -14,52% (rielaborazione da dati Eurostat).

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Il Regno Unito si affida molto a fonti fossili per quanto riguarda il suo approvvigionamento energetico: petrolio, carbone e gas hanno infatti costituito il 75,05% della produzione energetica dell’anno, e hanno soddisfatto il 66,02% del fabbisogno nazionale. Le fonti non fossili di energia rappresentavano invece il restante 24,95% dell’energia totale prodotta nella nazione, coprendo il 24,95% dei consumi finali totali. Il nucleare equivaleva al 15,34% della produzione, le biomasse ne rappresentavano il 6,19%, le energie rinnovabili – le quali compaiono nel paese a partire dal 1996 – costituivano invece il 2,96% del totale dell’energia prodotta nella nazione.

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3.14 Spagna

La produzione iberica di greggio, dopo un primo incremento del 25% registrato nel 1991 – anno in cui l’attività estrattiva tocca il suo picco massimo – subisce un’intensa contrazione, pari al 93,33%, nei successivi 11 anni; nel 2013 risale con un incremento percentuale di 300 unità, per poi decrescere nuovamente del 25%.

Le importazioni si presentano invece più sensibili ad oscillazioni, con un aumento pari al 13,81% nei primi otto anni; nel periodo 1998-2002 si rileva una flessione dell’import nell’ordine di 4,85 punti percentuali, seguita da un nuovo balzo del 6,12% nei quattro anni successivi. Il volume delle  importazioni crolla dell’8,65% nel triennio susseguente, per poi tornare a crescere del 14,39% nell’intervallo 2009-2014.

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I consumi invece salgono del 68,37% dal 1990-2005, per poi decrescere del 22,99% nei successivi nove anni. Data l’impossibilità per la nazione spagnola di coprire il fabbisogno di greggio con la produzione domestica, il paese deve affidarsi alle importazioni, fatto che causa la sua elevata dipendenza petrolifera, la quale si attesta su un valore medio del 99,67% nel periodo 1990-2014 (rielaborazione da dati Eurostat).

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La Spagna, per il parziale soddisfacimento del suo fabbisogno energetico, si affida in larga misura a fonti di energia non fossili: infatti, quest’ultime nel 2014 hanno costituito solamente il 5,43% della produzione domestica totale. Tre anni fa, il nucleare rappresentava il 42,75% della produzione energetica spagnola e soddisfaceva il 18,93% dei consumi finali totali; le rinnovabili – presenti nel paese a partire dal 1996 – hanno costituito il 21,71% dell’energia complessivamente prodotta nel territorio iberico, coprendo il 9,66% del fabbisogno energetico domestico; le biomasse – che hanno fatto il loro ingresso nel mercato energetico spagnolo già a partire dal 1977 – hanno rappresentato il 20,57% della produzione nazionale di energia, soddisfacendo il 9,15% dei consumi finali.

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3.15 Svezia

La produzione svedese di petrolio, ad eccezione del 1994 – anno nel quale si è registrato un livello estrattivo di greggio pari a 0,01 Mtoe – è stata nulla nel periodo di riferimento.

Le importazioni hanno visto un incremento del 10,58% nel periodo 1991-1997, per poi subire notevoli fluttuazioni ed oscillazioni nel resto del periodo di riferimento.

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I consumi energetici svedesi hanno visto un incremento del 14,76% nei primi sei anni del periodo di riferimento – raggiungendo il loro livello massimo nel 1996 – per poi subire un calo del 13,16% nelle tredici annualità successive. Nel 2010 tornano a crescere del 8,97%, ma si contraggono del 8,6% nei seguenti quattro anni. Potendo approssimativamente considerare la produzione svedese di greggio come nulla, è evidente come il paese dipenda interamente dalle importazioni estere per far fronte alle proprie esigenze energetiche: calcolando il valore medio della dipendenza petrolifera per il periodo 1990-2014, questo si attesta infatti su un valore pari al 99,37% (rielaborazione da dati Eurostat).

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La Svezia fa fronte alle proprie esigenze energetiche quasi totalmente con fonti di energia non fossili, le quali infatti nel 2014 rappresentavano il 99,62% della produzione domestica totale: il 53,06% del fabbisogno energetico nazionale è soddisfatto dal nucleare, che da solo costituisce poco meno di metà della produzione totale di energia; le biomasse, invece, hanno rappresentato il 31,27% dell’energia complessivamente prodotta sul territorio nazionale, coprendo il 33,89% dei consumi totali. Le energie rinnovabili, presenti in Svezia a partire dal 1992, nel 2014 hanno prodotto il 2,84% dell’energia totale, soddisfacendo il 3,07% del fabbisogno complessivo; dalle centrali idroelettriche si è invece generato il 15,87% della produzione energetica totale, che ha coperto il 17,19% dei consumi totali. Un dettaglio importante da notare è come la produzione svedese di energia sia caratterizzata da una resa molto elevata, per cui la percentuale di energia prodotta risulta sempre inferiore alla percentuale di copertura del fabbisogno energetico nazionale.

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5. Conclusioni

Anche se dal 1999 al 2014 sono stati aggiunti più di 2.575 Mtoe di greggio ai bunker internazionali dei paesi OCSE (fonte IEA), al fine di creare delle riserve petrolifere strategiche, permane il grande problema della capacità produttiva, un fattore che in passato ha contribuito a regolare le quotazioni del barile. Mentre le crisi petrolifere del 1973 e del 1979 sono state scatenate da uno shock dell’offerta, quella attuale non è associata ad un calo produttivo: negli ultimi anni, infatti, la produzione globale è rimasta stabile, ma il costo del petrolio fino al 2012 è cresciuto inesorabilmente. A livello globale, questo incremento è stato alimentato dal fatto che la produzione non è mai stata accresciuta in modo tale da poter bloccare la spirale dei prezzi, per cui il crollo del valore del petrolio è ascrivibile ad uno shock della domanda: il prezzo crescente, congiuntamente all’inasprirsi della recessione economica mondiale, ha creato un effetto di sostituzione tale per cui le industrie e i consumatori finali hanno ritenuto più conveniente rimpiazzare il petrolio con altre fonti di energia più remunerative, determinando così una crescita delle energie rinnovabili.

Per quanto riguarda l’Unione Europea, l’andamento del prezzo del petrolio subisce l’influenza di un altro importante fattore: l’entrata in vigore di norme comunitarie – e delle conseguenti leggi attuative a livello nazionale – sulla regolamentazione della produzione e del costo delle varie fonti energetiche. Per questa ragione, si è deciso di verificare questa relazione analizzando l’andamento del prezzo CIF del petrolio (ossia al lordo dei costi di trasporto, assicurativi e doganali, ma al netto delle tasse di importazione) alla luce del decorrere delle leggi in materia di energia.

Il seguente grafico è l’esito di una rielaborazione dei dati sui mercati petroliferi messi a disposizione dalla Commissione Europea; i prezzi CIF (Cost, Insurance and Freight) sotto riportati sono il risultato di una media annuale del costo osservato nei 15 paesi membri, ponderata sull’approvvigionamento nazionale totale (import più produzione interna).

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Lo shock della domanda che ha portato ad un così grande aumento nel prezzo è mostrato nel grafico sottostante (rielaborazione dati Eurostat). Benché la relazione non sembri marcata quanto nell'andamento dei prezzi, è possibile spiegare molto riguardo a quest'ultimi considerando il consumo nel periodo. Si evidenzia infatti che un consumo in calo già a partire dal 2006 rifletta un andamento rialzista nei prezzi, interrotto solo dal 2009, in cui lo shock è meglio spiegabile con assunzioni speculative (anche in considerazione del bounce successivo). L'effetto sul prezzo sarebbe quindi dovuto sia al calo produttivo nel settore petrolifero che caratterizza EU15 già dall'inizio degli anni Duemila, sia da un costante calo del fabbisogno energetico europeo nello stesso arco temporale, acuito dall'effetto reddito dovuto alla Grande Recessione: i due grafici sottostanti evidenziano questi fenomeni (rielaborazioni da dati Eurostat).

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Questi effetti evidenziano come non sussista una forte relazione tra il programma Europe 2020 e il drastico aumento del prezzo del petrolio correlato allo shock della domanda ad esso sottostante. È però necessario evidenziare che in questo arco temporale vi è stato anche un effetto di sostituzione (seppur minimo) tra petrolio e altre forme di energia: relativamente al consumo totale di energia, il petrolio è passato da costituire il 42,6% nel 1993 per arrivare al suo minimo storico del 34,9% esattamente dieci anni dopo, per poi salire leggermente portandosi al 36,0% nel 2015.

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Nonostante questo possa convincere della bontà degli strumenti di riduzione dell'impatto ambientale come i precursori dell'ETS e dello stesso Emission Trading System, è anche evidente, come risulta nel precedente paragrafo, che questa diminuzione dalla dipendenza petrolifera che si riscontra nell'aggregato EU15 è principalmente dovuta a singoli paesi (come Svezia e Francia) che implementano programmi energetici di alternativa al petrolio già dagli anni '70.

Singolare è inoltre il fatto che la risalita del consumo petrolifero abbia luogo proprio nell'anno in cui è iniziata l'applicazione della terza fase del programma ETS.

Risulta dunque complesso valutare l'effettiva bontà a livello economico e normativo di un programma, Europa 2020, che è stato così fortemente influenzato dal ciclo economico e dal lavoro che i singoli stati avevano già compiuto prima della sua creazione.

Gli effetti sulle fluttuazioni del petrolio sembrano minimi sebbene non assenti, si rimanda dunque ad una successiva analisi quando il programma sarà terminato, nella speranza che il trend in rialzo nella dipendenza da petrolio venga appunto invertito dagli istituti vigenti e da quelli che rientreranno nel successivo programma Horizon 2030, per arrivare al 2050 con una situazione climatica rispondente il più possibile agli obiettivi, ancora troppo blandi, dell'Accordo di Parigi.

 

 

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Sergio Inferrera

Messinese, iscritto al corso di laurea in Economia all'Alma Mater Studiorum di Bologna, appassionato al mondo della politica, dell'economia e dello sport

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