Questo escamotage permette di non creare un incentivo a produrre reddito all’estero, poiché non è possibile portare la residenza all’estero per trasferirla poco dopo in Italia e godere dell’agevolazione.
Battezzata subito come “flat tax”, l’iniziativa è stata subito soggetta a diversi pareri antitetici: chi ne ha accolto l’arrivo con grande entusiasmo (tipicamente i sostenitori di un interno sistema contributivo basato sulla proporzionalità e non la progressività) e chi crede si tratti dell’ennesimo regalo alla fetta più ricca della popolazione mondiale. Da questo punto di vista, in realtà, vanno chiarite due cose: la prima è che va messo bene in evidenza il fatto che questa non sia una vera e propria flat tax (la flat tax è un’imposta sul reddito con aliquota unica, non un versamento forfettario uguale per una determinata classe di contribuenti); la seconda è che, a livello normativo, i capitali oggetto di questa tassa (la c.d. base imponibile) sono interamente maturati all’estero. Da questo punto di vista, si tratta di una misura volta ad aumentare la competitività di un paese come l’Italia dotato di un sistema fiscale alle volte troppo “pesante”: secondo i proponenti, infatti, questa misura attirerebbe nel Bel Paese miliardari che, in cambio di un “piccolo” contributo fiscale, verrebbero a spendere il proprio reddito in Italia. E in un’economia trainata principalmente dai consumi questo non può che essere un bene. Il problema che si pone con misure di questo genere è di tipo etico, ma non solo. Come ha ricordato il presidente della regione Toscana Enrico Rossi, una misura di questo genere andrebbe contro i principi di progressività sanciti dalla Costituzione. A salvaguardare i limiti della costituzionalità della norma, vi è l’idea che un solo provvedimento, seppur regressivo, non infici la progressività di un intero regime fiscale. Secondo il costituzionalista Vittorio Angiolini, però, il provvedimento potrebbe essere a forte rischio di incostituzionalità poiché non rispetterebbe il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione. Il problema etico si mischia quindi con quello costituzionale: come è possibile che, pur di assicurarci i consumi di una piccola fetta privilegiata della popolazione mondiale, accettiamo di abdicare al principio di equità per cui chi possiede di più paga più tasse di chi possiede meno? Se è vero che già altri paesi all’interno dell’UE hanno adottato norme di questo tipo, è altrettanto vero che all’interno dell’Unione non può esserci una gara al ribasso nel nome della competitività: un’uniformità fiscale, da questo punto di vista, è ciò che porterebbe il focus della competitività su asset più importanti (livello di istruzione, stabilità dei governi, burocrazia rapida, ecc.). Un altro problema, inoltre, è di tipo strutturale: le iniziative di questo tipo, tipicamente di breve periodo, tendono a mascherare le condizioni economiche di un paese profondamente debole, che necessita riforme strutturali e non detrazioni temporanee. E in una situazione di crescente instabilità politica, poter agire fortemente a livello strutturale per apportare migliorie alla situazione italiana diventa sempre più difficile.
In un mero calcolo di costi-benefici, l’applicazione di questa imposta unica sicuramente può portare benefici nel breve periodo. Difficilmente misure di questo genere, però, riusciranno a risanare una situazione critica come quella italiana: per farlo, sarà necessario un periodo di relativa stabilità politica in cui i governi saranno meno interessati ad attuare politiche strappa consensi.
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