Nel 2017 il Pacifc Trash Vortex ha compiuto vent’anni. Un compleanno di tutto rispetto per uno dei più disastrosi fenomeni d’inquinamento ambientale dei giorni nostri, tanto più se si considera che la situazione nei decenni non sia certo migliorata.
Anzi, proprio il capitano Charles Moore, insieme al suo team di ricerca, lo stesso che nel 1997 scoprì la grande isola di plastica nella parte nord dell’oceano Pacifico, ha confermato l’esistenza (già ipotizzata) di un altro accumulo di detriti presente nei mari del sud.
Ma cosa sono esattamente queste “isole” che inquinano gli oceani? Come si sono formate? E quali sono le conseguenze della loro esistenza?
Di cosa stiamo parlando.
Il Pacific Trash Vortex, noto anche come grande chiazza di immondizia del Pacifico (Great Pacific Garbage Patch), o semplicemente isola di plastica, è un enorme accumulo di spazzatura galleggiante (composto soprattutto da plastica) situato nell'Oceano Pacifico, approssimativamente fra il 135º e il 155º meridiano Ovest e fra il 35º e il 42º parallelo Nord.
La sua esistenza fu scoperta il 3 luglio 1997 dal capitano della marina americana Charles Moore, il quale s’imbatté, per caso, in questa enorme isola di plastica nella parte Nord dell’oceano Pacifico.
Così come lo stesso Moore dice, è impossibile stabilire esattamente quale sia l’estensione del Pacific Trash Vortex, in quanto dal satellite la plastica risulta trasparente e quindi non identificabile con precisione. Tuttavia, possiamo dire che essa si estende, a partire dal largo delle coste della California fino quasi al Giappone, per una superfice di circa 2500 km di diametro, 30 metri di profondità, per un totale di 100 milioni di tonnellate di plastica.
Un’isola che ha raggiunto, ad oggi, le dimensioni di una nazione quale la Francia.
Purtroppo, però, la situazione non si limita alla già tragica condizione del Pacifico del Nord: esistono simili fenomeni in tutti i mari della Terra.
In particolare, proprio Charles Moore ha recentemente scoperto lo stesso identico fenomeno nel Sud del Pacifico.
Da dove arriva tutta questa plastica?
L’accumulo di plastica ha origine all’incirca negli anni ’80, aiutato dall'azione della corrente oceanica chiamata North Pacific Subtropical Gyre.
Questo flusso di corrente è dotato, esternamente, di un particolare movimento a spirale in senso orario e di una regione, all’interno del vortice, relativamente stazionaria, che ha permesso, e permette, quindi ai rifiuti di aggregarsi fra loro, formando questa enorme isola di spazzatura.
Ma i detriti da dove arrivano?
Al di là di quella che può essere la normale routine quotidiana, o lo stile di vita, di ognuno di noi, che in tanti decenni di non-riciclo ha causato un problema di inquinamento gigantesco e quasi totalmente ignorato dalla comunità (così come attribuitoci da Greenpeace), ci sono eventi che “fomentano” la situazione, nonché fenomeni, quasi naturali, che non sono da sottovalutare.
Ci si riferisce, più precisamente, a quando, a causa delle correnti dell’oceano, container trasportati da navi cargo cadono, disperdendo così in mare prodotti formati da materiali che non sono biodegradabili. O ancora, a eventi particolari quali il maremoto che ha colpito il Giappone nel 2011, che ha provocato un enorme afflusso di detriti nell'oceano; questi, galleggiando, spinti dalle correnti, si sono distribuiti nell'oceano Pacifico, raggiungendo anche la costa americana.
Ma non finisce qui! Poiché i grandi responsabili del trasporto dei detriti in mare, in realtà, sembra siano i fiumi.
Stando ai ricercatori, dieci fiumi nel mondo, di cui otto in Asia, sono responsabili, da soli, di circa il 90% della plastica trasportata in mare: lo Yangtze, lo Xi e lo Huanpu (Cina), il Gange (India), il Cross (confine tra Camerun e Nigeria), il Brantas e il Solo (Indonesia), il Rio delle Amazzoni (Brasile), il Pasig (Filippine), l'Irrawaddy (Myanmar).
Le conseguenze: come si modifica la catena alimentare.
Quando parliamo delle grandi isole di plastica presenti negli oceani, non dobbiamo pensare a una grande distesa di bottigliette d’acqua, giocattoli di dubbia produzione e chi più ne ha più ne metta.
La triste realtà è che tutto ciò che finisce in mare si trasforma, seppur lentamente.
Il risultato è quindi un’immensa distesa, si, ma di microparticelle di plastica, non di oggetti.
“A differenza del materiale biodegradabile, la plastica si foto-degrada, cioè si disintegra in pezzi sempre più piccoli fino alle dimensioni dei polimeri che la compongono. Inoltre, la foto-degradazione porta con sé la possibilità di inquinamento da PCB.
Stando alle stime di uno studio condotto dall'organizzazione senza scopo di lucro 5 Gyres Institute, negli oceani galleggiano 5mila miliardi di frammenti di plastica, grandi e piccoli. Secondo i ricercatori, la maggior parte di questi frammenti ha dimensioni paragonabili a quelle del plancton.
Il galleggiamento delle particelle plastiche, che hanno un comportamento idrostatico simile a quello del plancton, ne facilita l'ingestione da parte degli animali marini.
La grande varietà di plastica ha iniziato così a far parte della dieta di molte specie marine, entrando di fatto anche nella nostra catena alimentare: i pesci più grandi si nutrono delle specie più piccole che mangiano regolarmente la plastica insieme al plancton, finendo poi nelle pescherie e nei nostri piatti”.
La soluzione?
Ovviamente lasciamo ai governi la gestione di un problema del genere ma noi tutti dovremmo "obbligarci" al riciclo giornaliero della maggior parte degli oggetti che utilizziamo quotidianamente.
Fonti:
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