In Italia, la schiavitù è punita dal codice penale dagli artt. 600 e seguenti.
“Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi al prelievo di organi, è punito con la reclusione da otto a venti anni”.
Art. 600, c.1, cod.pen.
Il pensiero che una persona possa essere privata della propria libertà, sfruttata per un guadagno da parte di un altro essere umano, è qualcosa che va oltre l’illegalità dei fatti: è moralmente abominevole. Se ci soffermiamo a riflettere, non possiamo far altro che provare vergogna per la razza umana.
Ma la schiavitù non è mai stata davvero abolita, ha solo cambiato forma, si è evoluta; e, come ogni manifestazione di cattiveria umana, si è affinata.
Ad oggi, i Paesi occidentali che erigono muri e fili spinati contro gli immigrati dei Paesi dell’Asia e dell’Africa, depredano questi stessi posti di materie prime e sfruttano la loro gente per la loro produzione.
La schiavitù è un fenomeno tipico delle parti del mondo che si trovano in condizione di grande povertà economica, ma con grande abbondanza di capitale umano e materiale. Inoltre, inutile negarlo, la legge è meno restrittiva nella sua applicazione, consentendo di operare più o meno liberamente all’interno delle proprietà.
Non è un caso se le più grandi multinazionali delocalizzano le prime fasi della produzione in Africa e Asia, adottando le pratiche in uso dai produttori locali in merito allo sfruttamento delle persone e saccheggiando materie prime, al fine di ottenere il massimo guadagno e rendimento produttivo, a costo zero per i loro bilanci economici. Il costo lo pagano, con la vita, centinaia di adulti e bambini in tutto il mondo, costretti a lavorare in condizioni disumane per soddisfare ogni bisogno consumistico dei Paesi industrializzati.
Il problema del lavoro e dello sfruttamento della mano d’opera nel mondo è un problema che diventa ancor più preoccupante quando si pone l’accento sulla gravissima problematica che vede i bambini, anche molto piccoli, come protagonisti. Ce lo dice il gran numero di bambini e di adolescenti che intrecciano i tappeti indiani e pakistani, i raccoglitori di canna da zucchero in Brasile; quelli di tabacco nel Kazakistan; i baby cercatori d’oro delle miniere del Senegal, dove lavorano solo bambini–schiavi.
Si stima che nelle zone rurali della Costa d’Avorio, il maggior produttore al mondo di cacao, lavorano 4 bambini su 5; ogni anno dalle fabbriche del Pakistan, della Cina e dell’India escono 70 milioni di palloni di cuoio cuciti dalle piccole e agili dita dei bambini, impiegati per ore e ore in cambio di pochi spiccioli.
Tra le grandi multinazionali coinvolte nello sfruttamento della mano d’opera minorile, possiamo menzionare la Coca Cola, il colosso americano, o la Apple, la casa madre degli iPod, iPad e iPhone, nelle cui fabbriche dislocate in Cina sono stati trovati nel 2010 ben 91 bambini lavoratori.
Oppure della Mc Donald’s, della Nike, che produce articoli sportivi, o ancora della Timberland, la celebre marca di calzature americane: da un articolo apparso su Repubblica il 19/05/2005, a firma di Federico Rampini, che è stato per anni corrispondente di Repubblica da Pechino, apprendiamo che per confezionare un paio di scarpe Timberland, vendute nei nostri negozi a 150 euro, nella città di Zhongshan, in Cina, un minore di 14 anni percepisce un salario di 45 centesimi di euro. Il lavoro è di 16 ore al giorno, il suo letto è nella fabbrica, non ha assicurazione né ferie.
Questa realtà coinvolge in primo luogo i grandi produttori e distributori della tecnologia e dell’industria tessile: sono i prodotti di lusso, quelli più costosi, che fondano il loro impero su giornate lavorative che durano dalle 12 alle 16 ore di adulti e bambini che vengono pagati pochi centesimi all’ora e dormono dentro le fabbriche.
Le multinazionali in genere appaltano il lavoro a ditte locali, le quali a loro volta lo subappaltano a ditte più piccole. In questo "giro" si annida il lavoro dei bambini, difficilissimo da scovare, soprattutto perché, purtroppo, spesso è tollerato, se non addirittura legale. Ad esempio, in Indonesia il lavoro minorile è legalizzato (ma solo per 4 ore al giorno) e le piccole tute blu dell'industria manifatturiera sono almeno 300.000. Per salari bassissimi bambini e bambine lavoratori di 10-12 anni, assunti al posto dei genitori, vivono lontano dalle famiglie, poverissime e rurali.
In Asia, il lavoro minorile rappresenta un vero e proprio modello produttivo. In Africa, lavora un bambino su tre.
Quando acquistiamo un capo in una boutique o in un qualsiasi altro negozio, il prezzo che ci viene proposto ha una storia lontana, è un insieme di percentuali e numeri che muovono il pianeta intero; ecco la composizione tipica del prezzo di una t-shirt prodotta in Asia e venduta in Europa:
- 3% costo della manodopera;
- 5% dazi e trasporti;
- 6% costi generali di produzione;
- 11% costo materiali;
- 15% costi e profitti del marchio;
- 60% tasse, costi e profitti del distributore.
In quel misero 3% è rinchiuso il valore che a noi interessa. Il salario, così come previsto dalle convenzioni tra i Paesi di tutto il mondo, dovrebbe essere adeguato alla vita, dignitoso e dare la possibilità di mangiare, avere un alloggio e provvedere ai bisogni primari di ogni essere umano.
Ma questo non avviene in ogni parte del mondo e, spesso, quello che per noi è un lusso quasi indispensabile per qualcun altro è una vita misera.
Il monito è quindi uno: non è tutto oro quello che luccica. Ciò che nel mondo occidentale riveste un’importanza quasi morbosa, rappresentando uno status symbol per milioni di persone, è fatto del sangue e della libertà di gente sfruttata quasi fino allo schiavismo.
Fonti: