Soprabito chiuso fino al naso.
Pashmina.
Ombrello aperto per riparare dal vento e dalla pioggia. Borsa professionale fradicia e l'avvocato in un giorno di pioggia sta provando di tenerla al sicuro, manco fosse l'anello di Frodo.
Pantalone bagnato dal ginocchio in giù, perché ovviamente copri viso e borsa...
Non copri gambe e scarpe.
Perché tanto l'avvocato fuori porta non si ammala mai, non può.
Toga sottobraccio, mezza bagnata, che scivola via come un'anguilla.
Cellulare che suona. Incessantemente.
Sempre di corsa, tra un ufficio e l'altro.
Perché l'avvocato sa che gli uffici giudiziari sono dislocati in maniera scriteriata un po' qua e un po' là per la città. Non in un unico luogo.
Alla prima folata di vento, l'ombrello vola via.
E l'avvocato fuori porta rimane lì, sotto la pioggia, senza riparo e corre a recuperare l'ombrello sfuggito.
In attesa all'attraversamento pedonale, un furgoncino maldestro prende in pieno pozzanghera che, a sua volta, prende in pieno l'avvocato fuori porta.
La vita dell'avvocato in udienza da fuori porta è così, come una metafora, nella consapevolezza che non potrà cambiarsi e asciugarsi fino a sera, al ritorno a casa.
Alla continua ricerca di un asciugacapelli in tribunale, per poter asciugare gli originali delle notifiche appena fatte.
A me, per esempio, succede così, sempre.
Vita da avvocato fuori porta.
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